Il cinema è non solo presenza ricorrente nella
narrativa di Roth, ma anche oggetto di splendidi feuilleton e recensioni -
nell'insieme un centinaio di interventi, compresi per lo più fra il 1919 e
l'inizio degli anni Trenta, di cui si offre qui una ampia e rappresentativa
scelta. Appassionato di Buster Keaton, capace di liquidare il sentimentalismo
di un'epoca intera, cultore di documentari e film etnologici, Roth sa essere
sferzante come pochi e non risparmia perfidi strali a osannati registi, si
chiamino Lang o Ejzenstejn né, ovviamente, ai più turgidi colossal: come
"Messalina", contraddistinto da "una noia colossale",
sicché, egli confessa, "abbiamo il nostro bel daffare a tenerci svegli. Ci
sentiamo stanchi come dopo una festa di matrimonio o un banchetto funebre
durati giorni e giorni". Quando visita i set, poi, è un grandioso,
rutilante bestiario che si offre al suo sguardo implacabile: registi
onnipotenti, operatori pedanti, comici presenzialisti, ricchi produttori, dive
irresistibili e tiranniche che si scelgono ruoli cuciti sul loro corpo: senza
che di quel corpo "il povero sceneggiatore abbia potuto cogliere anche un
solo barlume". Ma quel che più conta è forse l'attenzione, acutissima e
preveggente, rivolta sin dai primi testi alla capacità del cinema di creare
simulacri: i meravigliosi prodigi dello schermo significano per Roth che la
realtà, così ingannevolmente imitata, non era poi tanto difficile da imitare...
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